Il primo
dubbio, ancora irrisolto, tra la comunità scientifica esamina la tesi che la
malattia mentale non sia altro che uno squilibrio chimico a livello cerebrale.
Numerosi psichiatri e psicoterapeuti si sono espressi a riguardo e, ovviamente,
il dibattito propone opinioni contrastanti.
ROBERT WHITAKER – Anatomia di un epidemia
Whitaker fa notare che la tesi “meccanicista”
della malattia mentale come squilibrio chimico,
appare poco dopo l'introduzione degli psicotropi
negli anni '50. Nel giro di due o tre anni dal
lancio sul mercato della chloropromazina nel 1954
(usata come “tranquillizzante maggiore” per
le psicosi), la psichiatria si ritrova
completamente trasformata, nonostante questi primi prodotti
non fossero stati pensati e messi a punto per il
trattamento delle malattie mentali; ad esempio
derivavano da molecole concepite per curare
infezioni. Nessuno, in principio, aveva idea di
come, esattamente, agissero sugli stati psichici:
si constatò semplicemente che ne risultava
un'attenuazione dei sintomi.
Secondo l'interpretazione di Whitaker, dalla
scoperta che gli psicotropi influiscono sul
funzionamento dei neurotrasmettitori, se ne è
dedotta, ex post, questa teoria: le malattie mentali
sono provocate da un'anomalia nella
concentrazione di queste sostanze chimiche all'interno del
cervello – anomalia che è precisamente corretta
dal farmaco appropriato.
Così, poiché la chlorpromazina si dimostrava in
grado di diminuire il livello di dopamina nel
cervello, ne si è concluso che le psicosi come la
schizofrenia fossero causate da un eccesso di
dopamina. Oppure, più tardi, poiché alcuni
antidepressivi fanno aumentare il tasso di un altro
neurotrasmettitore, la serotonina, si è postulato
che la depressione fosse dovuta a un deficit
di serotonina. Così, anziché mettere a punto un
medicamento per trattare un'anomalia, si ha
postulato un anomalia corrispondente ad un
medicamento.
Tuttavia, è assolutamente possibile (e
plausibile, secondo Whitaker) che i medicinali agenti sui
neurotrasmettitori possano alleviare dei sintomi,
anche se i neurotrasmettitori in questione non
hanno nulla a vedere con la malattia: poiché
l'eziologia della malattia non viene presa in esame,
non ne conosciamo infatti il funzionamento.
Come anche Carlat fa notare, “seguendo questo
ragionamento, potremmo dire che la causa di
tutte le affezioni dolorose è una carenza di
oppiacei, poiché i narcotici prescritti contro il dolore
attivano i recettori oppioidi nel cervello”;
oppure, insomma, che la febbre è una mancanza di
aspirina.
Tuttavia il principale problema con questa
teoria, è che, nonostante i decenni di sforzi per
cercare di dimostrarne la validità, i ricercatori
restano a mani vuote.
Se la tesi di Kirsch è che gli antidepressivi
siano inefficaci; quella di Whitaker è che siano
addirittura dannosi.
Egli infatti collega l'epidemia dei disturbi
psichici all'aumento delle prescrizioni: “ Nel corso degli
ultimi due decenni, periodo durante il quale la
prescrizione di medicinali psichiatrici è esplosa,
il numero di adulti e bambini invalidati da una
malattia mentale è aumentato ad una velocità
allucinante. […] Il nostro paradigma terapeutico
fondato sull'utilizzo di farmaci può, in qualche
modo imprevisto, aver alimentato questo flagello
dell'epoca moderna?” Si domanda.
Ipotizza inoltre una cronicizzazione tutta
moderna dei disturbi depressivi e schizofrenici,
che secondo lui prima dell' “era farmacologica”
si caratterizzavano come “molto spesso
spontaneamente risolutivi o episodici”.
Nonostante quest'ipotesi gli sia stata contestata sulla
base della cronicità tipica della schizofrenia e
dell'esistenza di forme croniche di depressione
anche prima degli anni '50, Whitaker è allarmato
dall'ipotesi che i farmaci, anche qualora curino
i sintomi a breve termine, possano causare dei
danni psichici di lungo termine, che perdurano
anche dopo la cura della malattia soggiaciente.
Nel suo libro, descrive una catena di effetti:
quand, ad esempio, un antidepressivo
ISRS come il Seropam fa aumentare il tasso di
serotonina nelle sinapsi, provoca dei
cambiamenti compensatori per un processo di
feedback retroattivo. In reazione al tasso
elevato di serotonina, i neuroni presinaptici che
la secernono ne liberano quantità minori,
e i neuroni postsinaptici si desensibilizzano.
Accade lo stesso per i prodotti che bloccano i
neurotrasmettitori, secondo Whitaker, seppure
all'inverso: ad esempio, i medicinali antipsicotici
arestano la dopamina, ma i neuroni presinaptici
compensano liberandone maggiori quantità,
mentre i postsinaptici ne assorbono più
avidamente.
A questo proposito, anche Steve Hyman, noto ex
direttore del NIMH e docente di Harvard,
afferma che un consumo di lunga durata conduce a
delle “alterazioni sostanziali e durevoli
del funzionamento neurologico”; il cervello
comincerebbe allora a funzionare in modo “sia
qualitativamente che quantitativamente diverso
dallo stato normale.
Ad esempio, gli ISRS possono condurre ad episodi
maniacali, a causa dell'eccesso di
serotonina. Oppure, gli antipsicotici provocano
disturbi simili al morbo di Parkinson, a causa del
deficit di dopamina che inducono.
Un ulteriore problema, secondo Whitaker, è dato
dal fatto che, al momento della loro
apparizione, questi effetti secondari vengono
trattati ancora attraverso altri medicinali; in questo
modo spesso i pazienti si ritrovano ad assumere
un cocktail di medicinali per un cocktail di
diagnosi diverse.
Se ciò non bastasse, una ricercatrice
rispettabile, Nancy Andreasen, ha pubblicato uno
studio che attesta che l'assunzione di
antipsicotici è associata ad una riduzione delle capacità
cerebrali, in modo strettamente correlato alla
dose ed alla durata del trattamento: “La corteccia
prefrontale non riceve più gli stimoli di cui ha
bisogno ed è messa fuori uso dai medicinali.
Questo riduce i sintomi psicotici. Ma questo
comporta anche la lenta atrofia della corteccia
prefrontale”.
“Gli psicofarmaci curano il sintomo, ma non la malattia”
Innanzitutto, egli confuta il luogo comune secondo il quale gli psicofarmaci non servono, bisogna farcela da soli. Questa affermazione, a suo parere, è tipica di chi non ha mai provato l'incontrollabilità e l'involontarietà del malessere psichico. Faravelli mette in guardia contro la generalizzazione e l'ignoranza di tale opinione: scegliere di non curarsi a fronte di una forma lieve di ansia, a suo dire, non è paragonabile al soffrire di forme psicotiche acute, pericolose per il paziente e per chi gli sta intorno.
Altro pregiudizio che Faravelli si occupa di sfatare: gli psicofarmaci sono tossici. Stare male e non assumere terapie o stare bene con le cure? Inoltre gli psicofarmaci non sono più tossici degli altri medicinali, ed addirittura sono più integrabili ed assimilabili dal nostro organismo, secondo l'autore, della comune aspirina. Il rapporto rischi/benefici è tuttavia un punto cruciale di ogni terapia: nel caso dei disturbi psichici, però, questo rapporto varia da “molto favorevole” a “lievemente favorevole”. Notevolissimo è, inoltre, il numero di psicofarmaci che non danno effetti tossici degni di nota nemmeno a dosaggi elevati. Qual'era, inoltre, l'alternativa prima dell'introduzione degli psicofarmaci nella pratica clinica? La reclusione a vita in manicomio. Questi farmaci sono meno tossici per il fegato dell'alcool, e hanno effetti benefici e stimolanti sul cervello, dice Faravelli, che potrebbero addirittura renderli utili per la prevenzione dell'Alzheimer. “E' triste esperienza dell'autore” scrive, “un paio di casi in cui la sospensione della terapia farmacologica ordinata dal gastroenterologo aveva condotto a un miglioramento delle condizioni del fegato: tale miglioramento era stato evidenziato dal riscontro autoptico dopo che il paziente si era tolto la vita!”.
Gli psicofarmaci curano il sintomo, non la malattia. Questa visione, secondo Faravelli, presuppone una monocausalità sottostante sia ai sintomi che alla malattia. In realtà la genesi patologica è determinata da molteplici fattori, agenti a livelli diversi ed interagenti tra loro. Non ci sono rimedi, attualmente, per eliminare tutte le concause della malattia. Anche nella medicina ordinaria vi sono farmaci sintomatici (che alleviano gli epifenomeni del malessere), oltre a quelli curativi. In particolare, in psichiatria, oltre ad alcuni farmaci sintomatici (tipicamente le benzodiazepine), ve ne sono di curativi; in più ve ne sono alcuni non inseribili in nessuna delle due categorie. E' arduo, ma Faravelli azzarda un confronto tra antidepressivi ed antibiotici: “l'antidepressivo è in grado di troncare definitivamente l'episodio depressivo, accorciandone la durata da qualche mese a poche settimane, e la sospensione del farmaco, una volta raggiungo l'effetto pieno, non comporta la ripresa della sintomatologia. Ciò che ha fatto scambiare gli antidepressivi per farmaci sintomatici è il fatto che, essendo la depressione una malattia tipicamente recidivante, il fenomeno patologico facilmente si ripresenta in seguito, seppur a distanza variabile da qualche mese a qualche anno”. Più in generale, secondo l'autore, è il concetto di “guarigione” che andrebbe rivisto: “nella medicina moderna le malattie che 'guariscono' sono quelle che danno luogo ad un'immunità permanente (morbillo, scarlattina ecc...) e quelle in cui l'organo malato viene asportato (per esempio l'appendicite). La stragrande maggioranza delle malattie di oggi è cronica (diabete, epilessia, ipertensione ecc.) o recidivante (accidenti vascolari, sclerosi multipla ecc.) : i disturbi mentali non fanno eccezione”.
Se non è stata rimossa la causa, il sintomo si ripresenta sotto altra forma. Anche questa concezione, secondo Faravelli, è frutto di una concezione ottocentesca della malattia: i modelli freudiani hanno conferito infatti troppa enfasi a simili concezioni di “accumuli di energie” protoscientifici. “In realtà né il corpo né la mente sono assimilabili ad una pentola a pressione, per cui non c'è bisogno che l'energia psichica si sfoghi da qualche parte”. Inoltre bisogna conoscere i decorsi specifici delle singole malattie prima di additare alla “sostituzione del sintomo”: La depressione che segue all'euforia, ad esempio, è parte dello stato naturale del disturbo depressivo; l'evoluzione dei disturbi (ad esempio dal disturbo di ansia generalizzata alla depressione maggiore) fa spesso parte dell'evoluzione naturale della patologia, e non può essere semplificata come mera sostituzione del sintomo.
Gli psicofarmaci sono droghe. Innanzitutto Faravelli sostiene che l'unica categoria di psicofarmaci con qualche potenziale di abuso è quella delle benzodiazepine “il cui rischio”, aggiunge “è comunque ampiamente inferiore a quello di sostanze socialmente accettate come l'alcol e il tabacco”. Inoltre spesso la necessità di mantenere il farmaco a dosaggi costanti per consentire lo stesso effetto è spesso fraintesa come dipendenza: “tuttavia questa condizione è ben diversa dall'avere una dipendenza tossicomanica: qui il farmaco viene preso al fine di stare normalmente bene, cioè di evitare le limitazioni connesse alla malattia, e non per 'stare meglio del normale'. Se di dipendenza si tratta, questa è dello stesso livello di quella che il diabetico ha per l'insulina o un iperteso per i farmaci contro la pressione alta, e difficilmente si potrebbe definire 'drogato' un diabetico”.
Gli psicofarmaci intontiscono. Non tutti gli psicofarmaci, innanzitutto, sono sedativi. Ad esempio, nel trattamento dei disturbi di ansia e depressione, in genere farmaci e dosaggi sono studiati per non interferire con la possibilità di mantenere le capacità lavorative e sociali dei pazienti.
Gli psicofarmaci non sono rimedi naturali. Questa semplificazione ingenua è, secondo Faravelli, frutto di una visione rousseauiana dai contorni lievemente fobici, secondo la quale la natura è in sé buona e sana, mentre l'umanizzazione e l'industrializzazione sono in assoluto il male. Un altro luogo comune correlato è che gli psicofarmaci siano più dannosi dei rimedi naturali: tuttavia non si prende in considerazione l'ampio apparato di test clinici che permette di conoscere pienamente gli effetti sia clinici che collaterali di un farmaco ben prima del suo lancio sul mercato.
Gli psicofarmaci devono essere presi a vita. Questa evenienza è possibile, ma non necessaria. Ma questo accade anche con alcuni farmaci della medicina ordinaria.
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