psicoterapia - farmacologia


Nel dibattito internazionale si è visto un generale scontro tra gli esperti a favore dell’utilizzo degli psicofarmaci, e fiduciosi della loro efficacia; e studiosi decisamente contrari ed in grado di smentire i dati atti a verificare gli effetti positivi degli antidepressivi.
Nel cammino della controversia si è lentamente fatta luce l’idea di poter applicare sui pazienti con problemi di depressione modelli basati sia sul supporto dialogico dello psicoterapeuta, sia su cure farmacologiche. 

L'opinione di Carmelo Di Mauro
Nello Schizophrenia Bulletin potete trovare un editoriale “rassegnato” sulla crisi che sta
attraversando il settore della psicofarmacologia. In effetti, se gli ultimi due decenni sono
stati gli anni del cervello, delle tecnologie di neuroimaging e l’esplosione delle ricerche
genomiche, le attese di farmaci più efficaci e selettivi per i disturbi mentali sono state deluse.
Ecco alcuni passaggi dell’editoriale particolarmente indicativi:
La farmacologia è in crisi. I dati lo confermano ed è chiaro il fallimento di questo enorme
esperimento: malgrado decine di anni di ricerca e miliardi di dollari investiti, nessun
nuovo farmaco ha avuto una durata oltre i 30 anni nel mercato psichiatrico. Infatti,
malgrado gli enormi sforzi del settore non si è stato in grado di andare oltre il limite della
variabilità soggettiva del paziente (“me too/me (questionably) better”). Negli ultimi anni,
la consapevolezza di questa realtà ha avuto profonde conseguenze sull’innovazione nella
psicofarmacologia riducendo il budget nella ricerca e nello sviluppo di nuovi farmaci, se non
abbandonando del tutto i progetti. Questa decisione è comprensibile se teniamo conto del
fatto che i dirigenti dele compagnie farmaceutiche e biotecnologiche preferiscono investire
in altre aree per nuove terapie, ad esempio il cancro o l’immunologia sono attualmente i
progetti preferiti. Infatti, ci si potrebbe chiedere a posteriori, come mai c’è voluto così tanto
tempo per abbandonare il ramo delle terapie psichiatriche. La domanda allora è questa:
cosa è necessario fare per ripartire? [...]
La scoperta delle tre maggiori classi di psicofarmaci, gli antidepressivi, gli ansiolitici e
gli antipsicotici, sono state prodotte sulla base di osservazioni cliniche casuali. Quando
furono scoperte, i meccanismi molecolari attraverso cui producevano i loro effetti erano
sconosciuti. Solo successivamente si comprese che gli antipsicotici sono antagonisti del
recettore D2, gli antidepressivi sono inibitori della ricaptazione delle monoammine e gli
ansiolitici modulano i recettori GABA. Sarebbe stato interessante capire come sarebbe
andata la questione se queste classi di farmaci fossero state ricercati con le strategie correnti
di ricerca. Ad esempio, quale è la mutazione genetica che sta dietro al recettore D2 della
dopamina, bersaglio dell’attività antipsicotica del farmaco? Attualmente non c’è nessun
dato genetico connesso con la disfunzione del recettore nel disturbo psicotico. [...] Lo stesso
può essere sostenuto per le monoamine per quanto riguarda la depressione dove, come
la psicosi, non c’è nessun modello animale basato sulla patofisiologia della malattia e
nessun risultato preclinico convincente da indicare come riferimento target del farmaco
antidepressivo. Questa situazione solleva una domanda preoccupante: se le maggiori classi
di psicofarmaci, retrospettivamente, non sarebbero state mai scoperte con le strategie di
ricerca attuali, perché dovremmo credere che queste daranno i loro frutti adesso o in futuro?
Dato che non ci può essere una base biologica coerente per le sindromi eterogenee come
la schizofrenia, non sorprende che la farmaceutica abbia fallito nel validare bersagli
molecolari distinti allo scopo di sviluppare terapie farmacologiche nuove. Sebbene c’è voluto
molto tempo nel nostro ambiente per capire come stavano le cose, mi sembra che ci siamo.
Ad esempio, nel convegno del Collegio Americano della Neuropsicofarmacologia nel 2011, il
bisogno di cambiamento e la necessità di nuove strategie sono stati i temi dominanti.[...]
Forse le cose non così fosche. Se si partisse coll’individuare quei circuiti all’interno del
continuum genoma/fenotipo, ridondanti dal livello neurobiologico alla funzione cognitiva e
al comportamento della persona, potrebbero essere scoperti i modi attraverso cui le attività di
questi circuiti diventano disfunzionali nei disordini mentali. Sarebbe un rovesciamento di
prospettiva rispetto all’approccio desritto nell’editoriale della psichiatria biologica, in cui si cerca
di puntare farmacologicamente sulla categoria nosografica diagnosticata al paziente (potete
trovare un interessante articolo in questo senso qui) con prognosi vicine al 50% (cioè imputabili
al caso).
In conclusione, nonostante gli ultimi euforici anni “organocentrici”, c’è molta strada da fare per
comprendere le relazioni tra i principali sospettati (gene, neurobiologia, cognizione, emozione,
famiglia) nel disagio psichico. Una complessità che non può essere sbrigata con un approccio
univoco, standard e commerciale. La medicina personalizzataè a mio parere la strada
giusta da seguire, ma ci vorrà molto tempo ancora. In ogni caso, è una piccola rivincita per i
modelli psicoterapeutici che puntano sulla persona piuttosto che sulla presunta oggettività
dell’Uomo.
fonte: www.carmelodimauro.com


Il parere di Bernard Granger
Professore di psichiatria all'università Paris-Descartes, clinico
Granger reputa sicuramente meritevoli di denuncia le strategie di marketing della Big Pharma e il riduzionismo biologico; tuttavia, sostiene, occorre evitare di “gettare via il bambino con l'acqua
sporca”: fortunatamente per le persone che soffrono, gli psicotropi sono spesso più efficaci dei placebo. “C'è incontestabilmente una lotta di influenza tra i sostenitori dei trattamenti biologici e coloro che non giurano che sulla psicoterapia. Personalmente, io li utilizzo entrambi, anche in associazione, se necessario; poiché è questa pratica pragmatica e aperta che apporta i migliori benefici ai pazienti”, scrive. “Il riduzionismo biologico è altrettanto inaccettabile del riduzionismo
psicologico, per il quale qualsiasi stato depressivo proviene da una perdita, reale o simbolica.
Sarebbe meraviglioso se conoscessimo la causa della depressione! In realtà, invece, ci sono delle depressioni; e le determinanti di questa patologia proteiforme sono contemporaneamente
biologiche, psicologiche e sociali.”
Rispondendo a coloro che, come la Angell e Kirsch, ritengono gli antidepressivi dei “placebo
migliorati”, Granger scrive: “Se ne osserviamo gli effetti non più “per media”, ma sui soggetti
presi uno ad uno, gli antidepressivi hanno, su di un paziente, degli effetti importanti e innegabili;
mentre magari non ne hanno alcuno su di un altro. C'è molta distanza tra le condizioni degli
esperimenti, situazioni artificiali e spesso a breve termine, e la pratica reale. Non si tratta di
antibiotici. La vita psichica non è una provetta in cui mettere un po' più di questo o un po' più di
quello. A rigore, i testi contro placebo degli antidepressivi stabiliscono dei dati parziali, dando
un'idea di quali potrebbero essere gli effetti di una molecola; ma non sono estrapolabili alla
pratica corrente. Noi lavoriamo in ben altre condizioni, secondo altre modalità di prescrizione
e in un altro quadro relazionale: ben differente da quello calibrato e fortemente semplificatorio
degli esperimenti.”
Tuttavia, in risposta a coloro che affermano che la psicoterapia e l'esercizio fisico si rivelano
altrettanto, se non di più, efficaci degli antidepressivi, Granger scrive: “Se bastasse giocare a
calcio per guarire dalla depressione, lo sapremmo già. Degli studi mostrano che, nele forme
leggere o moderate di depressione, l'efficacia delle psicoterapie è buona. Per le forme gravi,
però, esse sono inefficaci, e occorre ricorrere a un trattamento biologico. […] Questa visione
negativa degli psicotropi, troppo di moda attualmente, è in parte l'effetto boomerang degli
sforzi fatti dalle aziende farmaceutiche per allargare il loro mercato a disturbi che non ne
hanno necessariamente bisogno. Bisogna mantenere una proporzionalità tra i mali e i benefici
terapeutici utilizzati: soppesare i vantaggi calcolati e i rischi presi, caso per caso. […] Antonin
Artaud diceva che, se non avesse mai preso medicinali, non avrebbe mai avuto malattie... Ma
restiamo seri! L'industria farmaceutica tenta di allargare le indicazioni dei suoi prodotti talvolta
all'eccesso, sia volendo applicarli a forme leggere di alcuni disturbi mentali, sia medicalizzando
delle manifestazioni la cui caratterizzazione come autentiche malattie resta discutibile, come ad
esempio la sindrome premestruale. Tempo fa avevamo, per esempio, la spasmofilia. Ora c'è la
fibromalgia, domani ci sarà un'altra “furberia”. Ma, all'opposto, sostenere che la fobia sociale sia
un'invenzione, come fanno alcuni, è sintomo di pura ignoranza”.
Bisogna, insomma, incoraggiare un utilizzo consapevole dello psicofarmaco, evitandone il
cattivo utilizzo: cattivo utilizzo dovuto anche al fatto che, come Granger sottolinea, “L'80% degli
psicotropi sono prescritti da medici generalisti, certo molto meno formati (e in grado) a ricevere
con spirito critico le informazioni fornite dalle case farmaceutiche.”


Gli psicoterapeuti italiani 'La chimica non basta'.
Le risposte di Liotti e Russo alle affermazioni di Greenberg
E' un manifesto a favore del diritto ad essere infelici e una denuncia contro l' eccessiva medicalizzazione di ogni stato depressivo, “la Storia segreta del male oscuro”. Lo ha scritto uno psicoterapeuta americano, Gary Greenberg. La depressione - azzarda l' autore - altro non è che una "invenzione" dei medici, fondata sul mito che dipenda da un difetto biochimico e alimentata dall' incapacità generalizzata di reggere ogni vuoto melanconico. In una società fobica del dolore che ipotizza la vita come un eterno carnevale e la ricerca della felicità come il suo scopo principale, anche la tristezza diventa "depressione", una "malattia" da cancellare rapidamente, cosa c' è di meglio di uno psicofarmaco che restituisca almeno la possibilità di essere più "funzionali" e adeguati alla realtà? Nel mirino delle accuse di Greenberg sembrerebbero esserci i cognitivisti, per la loro fama di ricorrere spesso alle "medicine". Ma le cose stanno diversamente, a sentire un caposcuola del cognitivismo italiano come Giovanni Liotti: «La depressione al singolare non esiste, è un errore linguistico e concettuale. Ma ha ragione Greenberg: è vero che c' è un abuso di antidepressivi. Se non c' è niente che non sia genetico e niente che non sia "appreso" bisognerebbe valutare il grado di inibizione del soggetto nella sfera professionale e affettiva, prima di prescrivere farmaci. Allo stato attuale delle ricerche, una combinazione tra una piccola dose di serotoninergico e una psicoterapia è comunque la via più sicura per arrivare a un sostanziale sollievo in tempi ragionevoli. Ma se una persona elabora l' esperienza depressiva senza l' aiuto del farmaco acquisterà senz' altro maggiore fiducia nelle proprie risorse». Ancora più refrattari alle semplificazioni sono gli analisti, e in particolare Lucio Russo, "didatta" della Società psicoanalitica italiana. Anche la sua posizione potrà risultare sorprendente. «Non escludo l' uso degli psicofarmaci - dice - ma non delego mai esclusivamente a delle molecole chimiche la cura di chi sta male. Lo stato depressivo è affare nostro, della psicoanalisi. Serve una relazione transferale dove il paziente venga realmente "risostenuto". Non basta ricostruire il passato infantile, bisogna riviverlo nella cura e dare un senso alla propria storia. Noi analisti non lavoriamo per riadattare l' Io, per rieducare il pensiero e gli affetti: pensiamo che la nostra mente possa riparare i danni subiti laddove qualcosa si è interrotto o non è mai cominciato». E se il paziente è a rischio di suicidio? «Allora occorrono i farmaci, senza però che venga meno l' ascolto. La medicalizzazione, che denuncia Greenberg, è soprattutto una "difesa" dal farsi carico di una cura pesante, carica di diffidenza, di attacchi, di turbolenze emotive. Ma condannare un individuo a una carriera farmacologica è sempre una sconfitta per tutti».
fonte: la Repubblica, 19 aprile 2011

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