efficacia reale o effetto placebo?


Nell’ambito della controversia scientifica incentrata sull’utilizzo degli psicotropi si è fatta strada l’idea che si tratti di placebo, piuttosto che di farmaci con effetti veri e propri. Vi è quindi il dubbio se gli effetti degli antidepressivi sia davvero dovuto alle componenti chimiche del prodotto.
Si sono espresse a riguardo personalità competenti ed autorevoli tra la comunità scientifica.


IRVING KIRSH – Antidepressivi, la grande menzogna
Psicologo all'università di Hull, GB: sin dal 1995 si è interessato agli effetti dei placebo.
Gli antidepressivi sono efficaci?
Quando nel 1995 Kirsh inizia a dedicarsi all'effetto placebo in psichiatria (e precisamente
nei trattamenti contro la depressione) giunge a due conclusioni: che i placebo si dimostrano
tre volte più efficaci dell'assenza di trattamento, ma anche che (sorprendentemente) gli
antidepressivi non si dimostrano che molto leggermente più efficaci delle sostanze neutre. I
suoi primi dati mostrano che l'efficacia dei Placebo era al 75% paragonabile a quella dei farmaci
somministrati. In seguito a questi primi risultati, Kirsh decide di ripetere questi studi in modo più
sistematico e completo: riesce ad accedere al materiale della Food and Drug Administration.
La FDA concede le autorizzazioni alla messa sul mercato dei farmaci: per ottenerle le aziende
devono depositarvi tutte le ricerche condotte (condotte generalmente in doppio cieco e
contro placebo). Tuttavia, bastano due test risultati positivi per concedere l'autorizzazione – e
saranno proprio questi due positivi ad essere divulgati e pubblicati: tutti gli altri numerosissimi
esperimenti condotti, ad esito negativo, vengono depositati in modo confidenziale in archivi
senza divulgazione. Questa pratica, ovviamente, falsa di molto la letteratura specializzata,
l'insegnamento della medicina e le decisioni in materia di trattamenti. Ad ogni modo, Kirsch
riesce ad avere accesso (grazie al Freedom Information Act) a 42 di questi saggi riguardanti
farmaci come il Prozac, lo Zoloft e il Seropam: la maggior parte risulta negativa rispetto alla
loro efficacia. Soprattutto, in questi casi l'efficacia del placebo, paragonata al trattamento
farmacologico, saliva all'83%.
Kirsch inoltre nota un altro effetto particolare: nel caso in cui il placebo, anziché essere “inerte”,
era costituito da farmaci non considerati come antridepressivi (ad esempio ormoni, oppiacei,
sedativi, rimedi a base vegetale specifici...) l'efficacia di questo “placebo attivo” era
identica a quella del farmaco antidepressivo. Perchè? Cosa avevano in comune tutti questi
rimedi “efficaci”? Per Kirsch, il fatto di provocare gli effetti collaterali di cui i pazienti testati (in
doppio cieco, ricordiamo) erano stati avvertiti. L'ipotesi interpretativa (corroborata da interviste
con i pazienti e i medici) è che la presenza di questi effetti collaterali abbia permesso agli
individui di “indovinare” (o meglio, ipotizzare), che gli fosse stato somministrato un trattamento
reale, e che ciò li abbia resi più inclini a segnalare un miglioramento.
Kirsch ha allora ripetuto questi esperimenti con “placebo attivi” come l'atropina, ottenendo
sempre un efficacia uguale a quella degli antidepressivi.
Un'altra osservazione di Kirsch riguarda l'assenza di una curva “dose-reazione”: quantità più
forti dell'antidepressivo non si rivelano più efficaci. Nonostante questo argomento gli sia stato
contestato, poiché i recettori sui quali agiscono i medicinali possono saturarsi rendendo inutili
aumenti di dose, Kirsch conclude: “Tutto questo, collegato, ci porta alla conclusione che la
differenza relativamente sottile tra medicinali e placebo potrebbe non corrispondere per nulla
ad un effetto medicamentoso. Si tratterebbe piuttosto di un effetto placebo migliorato. […] Se
è così, non ci sarebbe, strettamente, nessun effetto verificabile legato ad un antidepressivo.
Piuttosto che comparare placebo e medicamenti, abbiamo comparato dei placebo “normali”
con placebo “rinforzati””. Le osservazioni individuali di pazienti e medici che sembrerebbero
corroborare l'efficacia dei trattamenti ad oggi in uso, infine, sono soggetti a multiple
deformazioni. Nella prospettiva scientifica di Kirsch, esse possono suggerire delle ipotesi da
studiare, ma non dimostrarle.




La risposta di Richard FRIEDMAN e Andrew NIERENBERG
Friedman è professore di psichiatria clinica, direttore, clinico di psicofarmacologia.
Nierenberg è Direttore del Programma di studi clinici e di ricerca sulle malattie bipolari, direttore
associato del Programma di studi clinici e di ricerche sulla depressione al Massachusetts
General Hospital e Professore di psichiatria alla Harvard Medical School.
Alle pubblicazioni di Angell e di Kirsch, Friedman e Nierenberg rispondono metodicamente.
Per cominciare, scrivono, le malattie mentali sono diagnosticate sulla base di segni e sintomi
di cui, ad eccezione dei disturbi provocati dal consumo di stupefacenti, non si conoscono le
cause. Ma la medicina, ricordano, non è differente in questo dalla psichiatria: “infezioni a partre,
la causa del cancro, dell'ipertensione o dell'artrite è sconosciuta. Questo però non impedisce ai
medici di alleviare i dolori causati dall'artrite con degli anti-infiammatori come l'Advil, o di trattare
l'ipertensione con medicinali che abbassino la pressione sanguigna.”
Rivolgendosi direttamente alla Angell, essi scrivono che “Marcia utilizza una teoria oltrepassata
e squalificata – quella che spiega la depressione come un mero squilibrio chimico – come
un argomento fazioso per negare che questo male abbia il minimo fondamento biologico
e, per estensione, che possa essere qualificato come malattia. La dottoressa Angell non
sembra conoscere i recenti miglioramenti della ricerca in neuroscienze, che dimostrano
che la depressione non è il disfunzionamento di un solo settore di neurotrasmettitori o di
una sola regione del cervello, ma probabilmente un disturbo che implica circuiti neuronali e
neurotrasmettitori multipli”.
Essi criticano il rifiuto fazioso di coloro che negano qualsiasi fondamento o implicazione
biologica per i disturbi mentali in modo deciso, anche sulla base della chiara comprensione che
abbiamo del modo in cui le droghe ad uso ricreativo affettano il cervello, cambiando umore e
pensieri: “Chiunque abbia mai bevuto un po' di alcool sa che gli stati mentali devono avere un
substrato biologico e, per estensione, che non si può giungere ad una visione credibile dello
spirito, sia sano che patologico, senza comprendere il funzionamento del cervello”.
A proposito della meta-analisi di Kirsch, invece, osservano che “una meta-analisi ulteriore
effettuata da Konstantinos Fontoulakis ha dimostrato che quella di Kirsch era difettosa: aveva
mal calcolato la differenza media tra i medicinali e i placebo, ed esagerato le sue conclusioni.
E' pur vero che gli antidepressivi non sono che modestamente efficaci nei casi di depressione
acuta; tuttavia Kirsch non menziona il fatto che la depressione è spesso una malattia cronica
ricorrente, e che gli antidepressivi sono molto efficaci per impedirne le ricadute. Una metaanalisi
di 31 studi sulla prevenzione della recidiva su lungo termine realizzata da Jhon Geddes
nel 2003 ha rivelato un tasso di ricaduta del 41% per i placebo, ma solamente del 18% per gli
antidepressivi.”
Infine, riguardo all'allarme lanciato dai teorici di una nuova “epidemia iatrogenica”, Friedman e
Nierenberg scrivono: “se così fosse, potremmo attenderci un aumento regolare della prevalenza
delle malattie mentali nella popolazione. Ma i dati epidemiologici mostrano un'altra cosa.
Come Roland Kessler segnala nel New England Journal of Medicine (16 Giugno 2005), i
dati provenienti dal National Comorbidity Survey mostrano che il tasso dei disturbi ansiosi,
dell'umore, o legati al consumo di stupefacenti è stabile: era del 29,4% nel 1991 e del 30,5%
nel 2003. Possiamo difficilmente, dunque, parlare di un' “epidemia galoppante di malattie
mentali”, come fa la Angell. In compenso, il numero di persone riceventi un trattamento è molto
aumentato nello stesso periodo: dal 20% nel 1991 al 32% nel 2003, cosa che significa che la
gran parte degli americani affetti da malattie mentali non sono ancora curati. Queste persone
soffrono di patologie potenzialmente mortali per l'alto rischio di suicidio, e il loro funzionamento
mentale ne è alterato. Sono pazienti la cui vita potrebbe essere salvata dagli psicotropi. […]
Sarebbe ben triste – e dannoso – che dei pazienti siano dissuasi da sollecitare un trattamento
psicofarmacologico sulla base di questo rendiconto distorto e deprivato da qualsiasi senso
critico”.


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